30/09/06 4 commenti

So perchè mi manchi...


(Liberamente ispirata a: “Funeral march” di Chopin)


Mia divina,
nel mio cuore c’è il sole,
la luna
e la fame del silenzio.

Ho labbra che parlano da sole,
ho sete di verità
e nel mio cuore
c’è il mare...

Ho voglia di parlare ancora di te;
non so perchè mi manchi...

Sappi,
che nel ricordo mi vivi affianco
senza mai esporti...

Non so più chi sei...
ho voluto nasconderti tra le ombre,
modellata in quella nota notturna che è l’amore.

Forse non c’è mai stata verità tra noi,
ma la tua luce,
la mia voce,
il mio cercarti invano,
la mia voglia del tuo sguardo,
il tuo essere te stessa...

...ora non so più chi sono...
...ora so perchè mi manchi!

Adesso che ho labbra gelide,
adesso che non posso più dire il tuo nome,
adesso che non ci sei più...
...so perchè mi manchi!


27/09/06 2 commenti

Primavera, estate, autunno, inverno...e ancora primavera.

Il titolo del post e le immagini, sono tratte dall’omonimo film del regista coreano Kim Ki-duk.
E’ un film che invita, proponendo come fonte d’ispirazione il susseguirsi delle stagioni, la crescita spirituale e fisica di un monaco bambino.
Appropriandomi dei messaggi e dell’eterna ricerca di stessi, ho scritto, sentendomi a mio agio e sinceramente coinvolto dall’avvicendarsi della storia, cinque haiku, che spero siano l’effettiva risposta e conferma di quello che è la vita, vista dall’interno.


In fiore vive
nella luce che sale
il bimbo savio

Il caldo fuoco
tempera nella carne
la nuova vita

La boria svela
senza sicure colpe
la brama folle

Torna la luce
seminando il freddo
dentro se stessi


La pace di se
germina nello sguardo
di chi ascolta

23/09/06 6 commenti

L’età dell’amore non ha età



Roma, 23 maggio 1973



Quando si diventa vecchi, come lo sono io ora, si passa il tempo a sfogliare a ritroso le pagine della propria vita e talvolta della vita altrui.
Tanti volti hanno incrociato il mio sguardo, tante vite sono diventate la mia vita, tante storie si sono intrecciate alla mia.
Ed ora che di tutti quei volti e di tutte quelle vite più nulla è rimasto, ora che passo il tempo a fare da compagnia alla mia solitudine, oserò raccontarvi una storia d’amore.Un amore forte, disarmante, dirompente nato prima della guerra e alla guerra sopravvissuto.
Un sentimento che neppure la morte ha potuto fermare.
Ormai sono troppo vecchio per chiedere all’amore le sue ali e volare con esso.
Ma voglio tornare ad accarezzare brividi di emozioni leggendovi questa lettera........


Roma, 11 gennaio 1916

Mio adorato Antonio,
da mesi ormai volgo lo sguardo al passato, mi nutro di esso, mi disseto con il tuo ricordo.
Non mi serve altro per sopravvivere e non credo di poter più coltivare alcuna ambizione a vivere.
Ogni giorno scorrono davanti ai miei occhi senza più lacrime, le immagini nitide del nostro amore, di quella felicità che sembrava non potesse svanire.
Ogni notte ruotano le scene della nostra vita, nel mio buio esplode la luce dei tuoi occhi, quelle carezze che sento ancora sulle mie gote, quegli abbracci che mi facevano sentire protetta.
Ogni notte....
Pensavo che niente e nessuno potesse separarci, ancora ignoravo che l’eternità può durare pochi giorni.
E’ stata questa maledetta guerra a portarti via da me e da allora ti ho aspettato ogni giorno, ti ho pensato ogni istante.
Ero con te nelle trincee, sento ancora le esplosioni, gli spari, l’odore della morte.
La tua paura, la mia paura, la nostra speranza.
Si può assistere a scene mai vissute? Adesso so che si può.
Sono passati cinque mesi da quando Don Nino è venuto nella nostra casa per comunicarmi che il tuo nome figurava nella lista dei soldati caduti in guerra. Sono morta anch’io in quel preciso istante, ho smesso di vivere sull’eco di quelle parole che pulsavano rabbiose nella mia mente.
Dio!! Vorrei solo raggiungerti ovunque tu sia!
Perchè questa sofferenza mi sta logorando e non trovo pace nelle mie notti insonni.
Questa casa parla di te ed io parlo con te, sento il tuo odore e la tua presenza ovunque, mi siedo sulla tua poltrona ed ogni volta il cuore si ferma.
Adesso vorrei solo che tu entrassi da quella porta e che abbracciandomi mi riportassi alla vita.
Vorrei solo stringerti a me pensando che sei ancora vivo, che si è trattato di un errore o di un brutto sogno.
Svegliami da quest’incubo e abbracciami.
Ora, in questo preciso istante ti sto baciando.
Dimmi che riesci a sentire il sapore del mio bacio!
Dimmelo e in questo preciso istante rinascerò........


....... vi ho mentito, e per di più, ho l’abitudine di mentire a me stesso. So con certezza, che quando piove, sono le lacrime degli angeli che bussano alla mia finestra; ma io non so leggere, non più: sono cieco!
Vi ho letto questa lettera con gli occhi della memoria e con il ricordo della voce di Don Nino, che ogni volta, quando gli racconto della mia mancanza d’amore, mi legge le lettere di Marta e Antonio.
Io sono un ciarlatano, e nelle mie menzogne, nascondo tante verità; ho amato anch’io, ma alla mia età i ricordi hanno più rughe del mio volto...
Antonio, per Marta, era ormai disteso nelle tombe della guerra, ma la vera vittima è stata proprio lei; morta giorno dopo giorno, preghiera dopo preghiera lasciando sulla poltrona che lui più amava, una lettera, con piccoli frammenti del suo cuore...
Antonio continuò quella lettera ed io posso solo chiedere alla mia memoria le giuste parole e raccontarvela.......


Roma, 7 agosto 1918


.........Marta, mio delizioso cuore,
si, ho sentito il sapore dei tuoi baci, il calore delle tue labbra, il boato delle tue lacrime lasciate cadere sulle mie mani.... ma sono tornato troppo tardi.
Ero prigioniero di guerra, della stessa che la patria mi ha chiesto di combattere con il cuore; della stessa che mi ha fatto credere disperso.
Non ho mai potuto scriverti!
Ero rinchiuso in una prigione fatta di ghiaccio, avvolto da urla, tormento, fame, morte; ma il mio cuore era sempre caldo per te.
I tuoi occhi mi hanno mantenuto in vita, proprio quelli che bramavo di rivedere al mio ritorno: ma non ci sono più! Sono morti come il tuo corpo, come la mia anima, come quel gran respiro che chiamavamo vita!
Sono tornato oggi ed oggi ho voglia di morire anch’io!
La nostra casa mi parla di te: della mia assenza, della mancanza di un figlio...ma c’è solo odore di tristezza. Al mio ritorno, volevo coccolarti con quella sicurezza che deve un marito, con tante bugie sulla guerra: non volevo farti soffrire!
Di te mi restano solo immagini e il mio desiderio di averti con me; ora solo so che non amerò mai nessun’altra donna.
Mi chiedo: “ Perchè proprio io? “
Io in guerra ho peccato, ho ucciso delle persone; le ho viste morire, chiedere aiuto...piangere...
Sono un assassino!
“E’ la guerra!” Così mi rispondeva sempre il cappellano.
Ti ho perso perchè ho voluto salvare la mia vita; dovevo morire!
Ho chiesto a Don Nino quando eri morta!
Lui mi ha risposto: “In questo momento!”
E’ stata una risposta secca la sua; non l’ho compresa e so che la porterò sempre con me.
In questa stanza, avverto la tua presenza e so che un giorno risentirò il calore delle tue labbra sulle mie...ora sto piangendo con le tue lacrime!
Presto sarò da te.


...... Adesso che vi ho raccontato questa storia, immergendomi totalmente in essa e vivendola con tutta l'intensità che un uomo può chiedere alla propria donna, vi chiederete: "Perchè raccontarla proprio a noi?"Giusto! Forse non dovevo farlo?Oggi è il 23 maggio del 1973, sono seduto sulla mia vecchia poltrona e l’unica donna, dopo la morte della mia seconda moglie, che mi è restata vicina è Marta: lei è mia figlia!
Ebbene si, mi sono risposato, ho ricercato i suoi occhi negli occhi di un’altra donna ed ho dato il suo nome alla mia unica figlia.
Sono troppo vecchio perché menta e alla mia età non si ha neanche il coraggio di farlo.
Avevo promesso nella mia lettera, che avrei fatto il salto, che avrei raggiunto le sue labbra... ho scelto di vivere; sono un uomo con tutta la sua codardia!
Ho pianto con i miei occhi le sue lacrime, ma non sono riuscito a raggiungere le sue labbra...
Non so perchè, ma avrei dovuto farlo! Sono un vigliacco e per questo – credo fermamente nella giustizia divina – dopo qualche mese ho perso l’uso della vista.
Forse la vera morale di queste lettere sta nelle promesse fatte e in tutto quello che ci si aspetta dall’amore! Talvolta io credo nella casualità e nella vita: forse io dovevo continuare a vivere!
Posso solo chiudere dicendovi che l’età dell’amore non ha età!

******

Testo scritto da " Stefy71 " & " Raffaele Innamorato "


12/09/06 5 commenti

9/12...

Speranze mute
odono in silenzio
il nume morto

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La pietà scotta
in macerie svenute
d’odio velato


04/09/06 6 commenti

La fatafarfalla


C’era una volta una fatafarfalla che amava giocare con le nuvole...

Era ancora una piccola fata, ma viveva come se fosse già una regina.
Suo padre, il re Zujothò della città di Jaszelo prevedeva per lei un gran futuro; e per questo motivo l’affidò alle cure del maestro mago Sambishà.
Sambishà, nonostante la vecchiaia, era ancora in gran forma: “E’ merito della sua magia.” si mormorava in città. Lui amava la vita, la buona cucina e adorava aiutare tutti gli jaszeliti con le sue pozioni; talvolta nutriva una profonda passione per l’asselesiana viola: un fiore che fiorisce ogni primavera sotto gli alberi manschù.
L’asselesiana viola, a detta degli jaszeliti, se raccolta ai primi bagliori della primavera, e se fatta seccare all’ombra dell’albero manschù, donava alla pelle la tonicità della fanciullezza: così spiegavano la beltà del vecchio mago.
Un giorno, proprio all’esordio della primavera, il mago mostrò alla fatafarfalla come raccogliere e seccare il fiore.
La fata, stanca per il duro lavoro, si allontanò nel bosco, mostrando, in tutta la sua bellezza, le giovani ali. Volò per svariate coltivazioni di fulguree roshaske – in jaszelito: fiore dell’amore -, assaporò tutto il profumo, finquando non fu colpita dalla vista di un Mangku, maligno roditore delle piantagioni roshaske. La guardò con tale gentilezza, che la fata, sentendosi osservata, scese giù nel campo.

Tu sei la fatafarfalla!” gli disse.
“Si, sono proprio io! Tu come ti chiami?” rispose la fatafarfalla.
“Mi chiamo Hazaleth. Sono il custode delle fulguree roshaske.”
“Ah si! Che lavoro faticoso è il tuo…!”
“Vero!” disse il roditore con voce ingannevole.
“Sono sempre qui. Sto attento agli innamorati che rubano questi fiori!” continuò.
“Tu hai una famiglia?” disse la fatafarfalla.
“No! Odio l’amore...odio tutti quegli stupidi che credono che un fiore possa accrescere il loro amore! Che grande stupidatà è l’amore!” disse il roditore.
“Così non ami l’amore! Io penso che senza amore non può vivere. Sai, io sono innamorata di un piccolo principe.”
“Alla tua età?”
“Io sono grande sai! Io compio dieci inverni e un mese primaverile. Sono abbastanza grande da essere innamorata!”
“Innamorata...! Quali sciocchezze odono le mie orecchie! L’amore non esiste!!!” gridò il roditore, quasi mostrando pena per la fatafarfalla.
“ Non m’interessa, guardiano dei fiori dell’amore. Io...io sono innamorata del mio principe!” continuò la fata.

Il tempo proseguiva accumulando ricordi; la fatafarfalla, sembrò non accorgersene. Non capiva se il roditore la prendesse in giro, o realmente, non aveva mai provato amore per qualcuno. Continuarono a parlare per lungo tempo, finquando, una voce la chiamò.
- “ Fatafarfalla...! Fatafarfalla!” sentì.
Era il mago Sambishà che la cercava.
Il roditore, colto da un senso di paura, cercò di scappare.
Colto da una maligna idea, disse alla fatafarfalla:

E’ vero che tu giochi con le nuvole?”
“Si, mi piace tanto!” rispose la fata.
“Non ci credo! Tu sei capace di far apparire le nuvole? Sei bugiarda!”
“E’ vero, verissimo!”

La fata chiuse per un istante gli occhi; e come per incanto, nel ben mezzo del sereno, creò dei nuvoloni.

Sai far piovere?” disse il roditore.
“Certo!”
“Tu non sai far piovere!”
“Ora ti mostro.”

La fatafarfalla creò in un baleno la pioggia. Sembrò felice, quando dimostrò al roditore quello che sapeva fare.

Sai creare i fulmini?”
“Certo!” rispose la fata.

La voce di Sambishà era ancora lontana; e per questo, Hazaleth continuò a beffarsi della fata. Iniziò a ridere e a prendersi gioco di lei.
La fata era imbarazzata, aveva promesso qualcosa che non aveva mai imparato: ma non demorse. Mormorò varie formule lette giorni prima dal libro delle fate.
All’improvviso, un tuono. Un altro. Infine, dalle nuvole scaturì una luce fortissima.
Fece scoppiare un fulmine, mostrandosi soddisfatta dell’imbarazzo del roditore.
Il vento si mostrò irrequieto, e spostò le nuvole, proprio all’impazzare di un nuovo fulmine; alla vista del vecchio mago.
Il fulmine colpì un’ala della fatafarfalla; lasciando Sambishà impietrito.
Il roditore scappò, lasciando la fata recisa del suo futuro – non poteva più diventare la regina di Jaszelo -.
Sambishà la curò; ma, neanche le sue formule magiche poterono contro la sventura della fatafarfalla.
Il mago pensò di nasconderla.
Passarono mesi; giunse l’età autunnale delle stagioni, e il re Zujothò prese, a battito d’ali, il viaggio per rivedere la figlia.
Il mago cercò di nascondere la verità; ma la menzogna ha sempre vita breve.
Il re, stanco del perseverare del mago, non vide altra scelta, che dimostrare il suo potere di re.
La fatafarfalla uscì da una porta, dietro la casa del mago. Era ancora priva di un’ala; e nessuna magia, sarebbe riuscita a ridargli.
Il re la guardò e disse: “ Lei non è mia figlia! Non è la futura regina di Jaszelo!”
A niente servirono le lacrime della fatafarfalla, e le parole del vecchio mago.
Il re volò via, coperto da quelle nuvole che gli avevano fatto perdere l’amore di sua figlia.
La fatafarfalla, nonostante il grande affetto che aveva per il padre, smise di piangere; si mostrò estranea a tutto ciò che era accaduto. “Infondo è solo un’ala!” pensò.
Scappò dalla casa del mago.
Camminò come non aveva mai fatto, incontrando elfi, orchi e tutte le creature dei boschi, finora mai incontrate.
Visse per vari inverni in piena solitudine; finquando non si ritrovò davanti alla sua vecchia casa: il castello del re Zujothò.
Vide il padre, oramai vecchio, appoggiato vicino ad un albero che osservava il cielo.
Il re la vide e disse: “ Tu sei la nostra regina!”
Lei cominciò a piangere, assaporando il sapore delle sue stesse lacrime.
Abbracciò il vecchio padre...
Ancora oggi, dopo tanti anni di regno, la fatafarfalla, ricorda le lacrime del re e l’infuso d’asselesiana viola che bevvero quel giorno.
Il re morì un anno dopo, e la fatafarfalla, regnò a Jaszelo con il piccolo principe che aveva abbandonato, fin dal tempo dello sfortunato incontro di Hazaleth.
La fatafarfalla, fu la prima regina di Jaszelo, ad aver avuto l’affetto del suo popolo, anche se possedendo una sola ala.



 
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