08/12/06 8 commenti

Allo specchio…l’inverno!

Dipinto di Alfonso Calafato


Quando ridiamo,
le nuvole piangono!
Vedo la neve…

Balla al vento;
brividi in musica…
vivi inverno!

Vedo la vita;
sento il freddo in me…
che sensazioni!

“ Balocca cuore!
La neve è miracolo!
Piangi al caldo?

Amore, vivi!
Parlami sempre di te!
Amo solo te! ”

Lo specchio parla;
sa di noi, amore mio!
vedi la neve?

Cerco solo te!
La neve è diversa!
Amo solo te!



02/12/06 4 commenti

Confessioni prive del riflesso di se



“Esistono riflessi silenziosi come lo spirito di chi vive senza voce,
in una gabbia a forma di stanza; buia,
con l’unico spiraglio di verità che ho imparato a chiamare finestra…”

- R. I. -


Oggi, dopo cinque anni di silenzio, proprio nel giorno della mia condanna, mi è stata regalata una penna: l’indisciplinata arma delle mie sfide passate.
Ero pressappoco ventenne, quando, mostrando la mia irrequietezza, tutti i più autorevoli critici mi resero immortale. Raccontavano di me e delle mie gesta d’autore smisurate. Ho scritto per il mio ego e per quell’indistinta follia che chiama scrittore un uomo; ma ho saputo peccare non solo con le parole, tanto che, ad ogni mia imprecazione, sentivo il lamento degli angeli, ed il mio spirito ingannato. Sono stato imbrogliato, hanno imbrogliato le mie umili origini, hanno fatto di me un mostro: il vero motivo della mia condanna. Tutti sapete che ho ucciso Evelyn e non ho più forze per dimostrare la mia estraneità ai fatti; non serve, ormai sono rassegnato alla mia sorte, anche se le prove della mia innocenza sono a portata di mano.
Credere che un uomo, nell’eccelsa stravaganza del suo successo, possa distruggere tutto quello per cui ha lavorato, è un’infausta vigliaccheria. Si, Evelyn è morta, ma io ero lontano da casa! I miei avvocati hanno creduto necessario spodestare il mio patrimonio, rendendomi un assassino…
Non voglio più parlare di questo, sono sempre più rasserenato dall’idea della mia innocenza e dalla certezza che sarò accolto tra le sue braccia con grande amore; forse, solo questo salto mi renderà le mie verità. Non scrivo per convincervi della mia innocenza, ma ho voglia di raccontarvi dei miei cinque anni nascosti – si, è il termine giusto! Nascosti dalla vita che mi è stata negata. - in una gabbia chiamata stanza. Sento il dovere di raccontarvi il tutto al passato, vi dico che quella gabbia era buia anche di giorno, e vivevo per l’unico spiraglio di verità che ho imparato a chiamare finestra! Era grande venti centimetri per venti; lo è tutt’ora.
Ho trascorso i primi tre anni convincendomi che ero un assassino, e che dalla distanza che separava me all’omicidio di Evelyn, percorrevano solo pochi passi; ma il tempo mi ha riconcesso la mia ragione.
Per caso – io ho sempre creduto in esso e nei suoi baratti -, il tenente di polizia che mi ha arrestato, mi consegnò un libro dal titolo: ”Confessioni prive del riflesso di se” di una scrittrice italiana di nome Stefania Leopoldi: il mio ultimo desiderio è stato quello di portarlo con me, sulla sedia elettrica. Passai gli ultimi due anni della mia vita, rileggendo quelle pagine calde, scritte con un inchiostro fuori dal comune – pensavo questo, ogni volta che il mio sguardo sfiorava ogni sua parola; sembrava quasi appartenere a quelle sfere di pensiero vitale di cui avevo sempre desiderato appropriarmi - con pensieri tanto reali, che, immedesimati nella mia realtà, mi fecero credere che la fine fosse la cosa più giusta.
Credo che i libri che ci catturano dall’inizio, sono quelli che hanno già dentro una parte di noi.
Tra quelle pagine ormai consunte ho lasciato me stesso, quelle pagine sono una foto in prosa della mia anima. Ho sempre desiderato conoscere quella scrittrice che, senza saperlo, ha dato voce alle mie emozioni. L’ho chiesto, l’ho chiesto più volte ma credo che nessuno le abbia mai fatto pervenire quest’assurda richiesta.
Sono certo che se avesse saputo, sarebbe venuta da me. Ne sono certo perché il suo sentire è il mio sentire. La prima volta che presi il suo libro tra le mani, il battito del mio cuore accelerò all’impazzata senza sapere il perché. Sul retro di un copertina che regalava l’immagine di un ragazzo, una solitaria frase mi trafisse: “Non mi hanno permesso di essere, impedendomi di diventare”.
Rimasi per qualche interminabile secondo con gli occhi fissi su quelle parole, la mente già altrove.
Solo una frase e in quella frase tutto il mio mondo.
Il tempo, fermo da tre anni, riprese a scorrere. Ricordo di aver sentito il rumore delle lancette fendere il silenzio mentre con mani tremanti mi accingevo ad aprire quel libro in un punto a caso, perché il caso non esiste….

“Quando Eugenio si destò dal suo torpore, si rese conto che era troppo tardi. Il male ricevuto a lungo andare lo aveva fatto soccombere. Il sole si spense in una mattina di aprile di qualche anno prima, da allora nessuna stagione a scandire il tempo ormai fermo, solo il gelo del suo inverno interiore.
Era scivolato in un baratro profondo, fatto di buio, di vuoto, di assenze, di voci, di morte, di brividi e paura, paura, paura…..
Tremava Eugenio e spesso piangeva lacrime nascoste, gocce di rabbia e tristezza per quella fetta di esistenza che gli era stata sottratta.
La vita gli aveva tolto molto di più di quanto non gli avesse dato. Ora c’era una voragine tra il suo passato ed il presente, il futuro poi non riusciva a visualizzarlo neanche nei suoi sogni. Si sentiva un’isola da cui qualsiasi costa era troppo distante per costruire un ponte. Era solo e lo sapeva.
Nel buio della sua stanza pensava. I suoi pensieri sembravano non fermarsi mai, avrebbe voluto imprigionarli, avrebbe voluto cadere in una sorta di dolce incoscienza perché è proprio la consapevolezza del proprio male ad acuire quel dolore.
Pensava Eugenio, pensava a tutto ciò che aveva perso e a tutto ciò che non aveva mai avuto. Si rendeva conto che sul binario della sua vita nessun treno sarebbe più stato annunciato, per parecchio tempo se non addirittura per sempre.
Si vedeva seduto su una panchina in una stazione immaginaria, la nebbia ad avvolgere il mondo che lo spaventava, come una sorta di soffice coperta per impedirgli di vedere e di essere trafitto dalle immagini che gli ruotavano accanto.
Sullo sfondo un orologio fermo ed un silenzio surreale a rendere vana qualsiasi attesa. Eppure lui aspettava, senza sapere cosa né chi, ma aspettava.
Sapeva che il vuoto della sua vita doveva essere colmato, solo così il suo respiro poteva tornare ad essere regolare e la sua ansia avrebbe potuto placarsi. Solo così….
Sapeva che sarebbe giunta anche la sua fine ma in attesa di quel momento avrebbe voluto riagganciare attimi di vita. Anche un solo attimo di vita non avrebbe reso vana quella lunga attesa; anche una sola, breve, interminabile emozione è vita.
Fu così che l’orologio fermo di quella stazione immaginaria riprese miracolosamente a funzionare. Eugenio giurò di aver sentito il rumore delle lancette fendere quel silenzio surreale. Ed aspettò…..”

Quando chiusi quel libro pensai: “Chiunque tu sia voglio conoscerti, ovunque tu sia voglio raggiungerti”. Mi hai chiamato Eugenio e da oggi questo sarà il mio nome.


20/11/06 3 commenti

Sempre

(...a mia nonna)


“Perché le mie labbra sono mute,
e la mia anima risiede con Dio;
ho affidato il mio corpo a voi,
figli del mio stesso sangue…”

Ho stretto le vostre mani,
ho benedetto i vostri figli
e voi stessi: figli miei!

Il filo della vita s’è spezzato;
ora vivrò nei vostri cuori.
Il mio Spirito veglierà su di voi,
prenderò ancora per mano
voi ed i figli dei vostri figli;
vi accompagnerò,
parlandovi con la mia voce: sempre.



11/11/06 3 commenti

…infondo, io vivo così!

“Malinconia” : foto di Robertomaria Rivas


Mi passò accanto,
abbassando lo sguardo,
quasi indebolita alla mia presenza.

Vi chiederete:
“Lei, avrà ascoltato la mia musica?”
Penso di si!

Quando lo sguardo tace, l’udito acconsente…
…infondo, io vivo così!

Sono troppo stanco,
la mia fisarmonica suona solo per me;
suona sola…
sa chi sono realmente.

Vi svelerò un segreto!
Anch’io, anni fa, non guardavo!
Oggi riesco a leggere gli sguardi muti;
riesco a leggere me stesso…
…infondo, io vivo così!

Vi state chiedendo perché continuo a guardare questa donna!
- Ah, ah! Certo, perché è una donna! -
“Ho avuto paura.”
“Neanche la sua macchina fotografica ha avuto il coraggio di guardarmi!”


- R. I. -

06/11/06 3 commenti

Labbra in fiore

Se fossi costretto a parlare della mia vita,
spettegolerei volentieri delle tue labbra, amore mio!
…ricordo solo questo di me!

- R.I. -


“Talvolta, di notte, ho l’abitudine di nascondermi e desiderare ancora le tue labbra.
Il vento, anch’esso appassionato, odioso infiltrato dei nostri sospiri, mi rimprovera.
Ti ho amato; i miei silenzi ti hanno amato, ed io ho saputo sfiorare le tue labbra senza ascoltare le tue parole…”

Queste, le mie ultime immagini d’inchiostro, scritte sul mio diario. Sono vecchio ormai, e l’unico peccato che riesco a concedermi, sono le parole dei ricordi.
Ogni istante si spoglia, si nasconde, assorbendo le mie lacrime: ho ancora desiderio di te!
Vorrei barattare le mie parole con il tuo ritorno, ma il baratro ci separa.
Venderei la mia anima, ogni mio istante perso con te, per sentir ancora il tuo nome…
Ah, le tue labbra... La tua voce… Il mio nome sussurrato in simbiosi con la tua anima!
Vorrei morire anch’io per raggiungerti, per dirti che mi manchi…amore mio.
Sai, sono anni che lotto contro il mio diario; non ho saputo più scrivere niente di nuovo…ma la musica delle parole, quell’inconfondibile melodia che accompagnava il tuo respiro, mi manca. Ho ancora tanto da regalare, e nei miei desideri, ancora le mie labbra che incontrano le tue; in silenzio, sapendosi amorevoli tra le trasparenze della nebbia…sempre in fin di vita.
Nella più intima ingenuità adolescenziale, le labbra partorivano parole, e crescendo, le parole, mostravano anche la lingua è, il mistero di se stessi; l’incoscienza del mio amore smarrito.


Lei:

Non spegnere l’amore che vive nonostante noi…
Non lasciarti morire per nessuna ragione, non devi! Dolcissimo amore sussurrato e doloroso, sono con te nel cuore, profondamente, inesorabilmente sono e vivo di te, del nostro amore infinito.
Freddo, ho tanto freddo amore… cerco d’abbracciarti e non ci riesco! Le mie braccia non hanno la forza di stringere il tuo petto contro il mio… non più.
Tristezza spegne il mio sorriso, le labbra, vorrei sentire le tue, ancora una volta… almeno una volta Dio!
Non sono più nulla… solo un ricordo fra le pagine del tuo diario… perché amore? Perché io?
Non si può morire a vent’anni, non si può morire prima d’iniziare a vivere no…non si può…
Tieni la mia mano, tienimi ancora con te… legami ai tuoi abbracci e alle tue labbra dolci d'amore… non lasciarmi sola nel nero di un fossato che mi custodisce… ti supplico, rimani per sempre nel pensiero di noi, io, sogno evanescente solo così vivrò.


Raffaele Innamorato & Manuela Verbasi

26/10/06 3 commenti

Un giorno vivrò anch’io con te!

Volevo confidarmi con te,
ascoltare quello che pensi…
…forse è troppo tardi!

Ti ho nascosto i miei sogni,
ho nascosto me stesso…
…ti ho sempre mentito!

Le parole hanno voce nel silenzio…
…il silenzio ha voce nelle parole;
ed io, folle senza degna dimora mi assento!

Penso alla morte
e asciugo le mie lacrime di carbone…

…ho saputo parlare con te,
con la tua anima;
ora non più!
E’ notte!

Oggi bevo il mio ultimo bicchiere;
ti bacio,
e le tue labbra hanno ancora il sapore della ruggine…

Un giorno vivrò anch’io con te!



24/10/06 2 commenti

Lei pensa...


Labbra segrete.
Sorride il bocciolo;
è primavera.


21/10/06 3 commenti

L’eco del silenzio


…danzando a ritroso nelle memorie delle mie paure,
e cullandomi nel limbo del mio silenzio,
ho smarrito me stesso.

- R.I. -



Avevo raggiunto l’apice delle mie insicurezze, vaneggiavo nella mia stanza a volte muta, in cerca di verità, in cerca di me stessa.
Dalla mia finestra voci suggestive e luci evanescenti mi distraevano, mi facevano sentire meno in gabbia o forse solo più lontana da me. Avevo necessità delle mie parole ma i pensieri sembravano non avere mai senso.
Sovente m’illudevo che erano proprio loro a venirmi a cercare: ma sbagliavo!
Come sempre sbagliavo!
I miei pensieri, a volte, li vedo galleggiare su di un foglio bianco: questo è il vero eco del silenzio! Vivo di sincerità fatta di versi ma oggi sono sola, impaurita da questi fogli che tacciono silenziose verità. E’ forse questa la vera essenza di chi scrive?
Scrivere, mostrandomi libera, tra le folate di vento e i bagliori di un tramonto è un dono apparentemente regalatomi; ma chi comprende la vera necessità delle parole? Io non più!
Adesso non più….
Osservo la mia gatta che mi guarda incuriosita, leggo nei suoi occhi lo smarrimento per l’assenza del suo padrone, si aggira per la casa cercandolo, annusando gli oggetti che ancora parlano di lui.
Ma lui non c’è più ormai.
E’ andato via lasciando ovunque una parte di se e portandosi dietro una parte di me.
Ci sono fughe che non comprendo e ritorni che non accetto.
Ci sono parole che ho bisogno di sentire, addii che devono essere definiti, verbalizzati, sviscerati.
Solo per capire e quindi accettare, solo per chiudere e quindi ricominciare
Perché posso accettare anche ciò che non condivido ma mai ciò che non so.
Adesso quelle parole taciute, mai pronunciate, non le cerco più. Adesso non avrebbero più senso.
Le sento echeggiare in questa stanza pronte a fendere il mio silenzio, le vedo galleggiare su questo foglio bianco sul quale mai si poseranno.
E allora guardo fuori, oltre questa finestra che si affaccia sull’infinito.
Rubo la vita degli altri. Vedo persone che corrono forse verso qualcosa, forse verso qualcuno.
Immagino la loro vita, la sovrappongo alla mia in un gioco che acuisce quel sottile dolore che mi accompagna. Alcuni di loro sembrano felici, chissà se lo sono davvero!!!
Se riuscissi ad incrociare anche uno solo di quegli sguardi saprei capirlo.
Ormai percepisco le più inconsistenti sfumature psicologiche, a volte ho l’imbarazzante sensazione di vedere negli altri cose che sfuggono persino ai diretti interessati.
Adesso mi arriva dalla strada il suono stridulo di una risata ed è come una coltellata, una gioia che si contrappone alla mia tristezza in quel gioco di vite sovrapposte.
Allora sollevo lo sguardo verso il cielo ed il mondo sottostante sparisce, non sento più i rumori assorbiti dalla mia anima in un ultimo tentativo di difesa.
Riconsegno ad ognuno dei passanti il suo pezzo di vita e lentamente torno dentro di me, in questo silenzio che mi avvolge e mi culla.
L’eco del silenzio lo sento solo io.




***

Lo avresti scritto anche senza di me, un giorno!
Io ho solo trasgredito le leggi delle casualità, anticipandone i tempi.
Ricorda: “Le idee sono grandi, quanto chi le riceve!”

Un abbraccio con stima Raf.
16/10/06 2 commenti

Drago d’acqua

“Drago d’acqua”: foto di Robertomaria Rivas


“Spazi di cielo
ornamenti di nembi
aria di fuoco.

Il drago si rivela,
pieno di acredine.”


01/10/06 7 commenti

Il gioco della vita " I & II parte "

Parlo insieme a Te
mi sembra di conoscerti
da sempre...

...non ho ragione di mentirti,
il mio cuore parla di te
e la musica è la mia promessa...

I nostri destini che s’intrecciano,
le mie parole che richiamano parole,
le nostre sensazioni che si mescolano a ricordi comuni...
l’amore è la nostra vera promessa!

A volte il destino
fa giri immensi
e poi ritorna
quasi fosse un gioco,
un soffice sospiro,
una tenera carezza
persa tra le mie labbra silenziose.

Si, oggi sorrido,
penso a te,
penso alla distanza che ci accomuna,
penso all’amore che ho sempre desiderato di comprendere,
penso che tutto questo,
potremmo chiamarlo:
il gioco della vita.


Leggo le tue parole
e le emozioni
come una dolcissima tempesta
fanno vibrare le corde della mia Anima
senza un perchè
senza un apparente motivo
lasciando i miei occhi
fondere lacrime...

...non avrò mai paura
è l’amore che ci rende forti
il sapere che ti amo
il saperti accanto
il sapore delle tue labbra sulle mie.

Il cuore vibra
nello scoprire quanto
il destino può mettere
sul nostro cammino...

Il caso ha sempre giocato con le nostre vite
non ha mai avuto paura...

...i miei sogni
s’intrecciano di parole...

...i nostri cuori si legano
con un filo impercettibile...
ci donano sensazioni straordinarie;
e mai,
una lacrima sarà più debole di un sorriso,
quando prende forma,
quando è avvinta dalle sensazioni,
quando cerca di esistere
nel nostro gioco della vita.



( Testo liberamente ispirato a: " Canone inverso " di Ennio Morricone )

Di SempreGio & Raffaele Innamorato


30/09/06 4 commenti

So perchè mi manchi...


(Liberamente ispirata a: “Funeral march” di Chopin)


Mia divina,
nel mio cuore c’è il sole,
la luna
e la fame del silenzio.

Ho labbra che parlano da sole,
ho sete di verità
e nel mio cuore
c’è il mare...

Ho voglia di parlare ancora di te;
non so perchè mi manchi...

Sappi,
che nel ricordo mi vivi affianco
senza mai esporti...

Non so più chi sei...
ho voluto nasconderti tra le ombre,
modellata in quella nota notturna che è l’amore.

Forse non c’è mai stata verità tra noi,
ma la tua luce,
la mia voce,
il mio cercarti invano,
la mia voglia del tuo sguardo,
il tuo essere te stessa...

...ora non so più chi sono...
...ora so perchè mi manchi!

Adesso che ho labbra gelide,
adesso che non posso più dire il tuo nome,
adesso che non ci sei più...
...so perchè mi manchi!


27/09/06 2 commenti

Primavera, estate, autunno, inverno...e ancora primavera.

Il titolo del post e le immagini, sono tratte dall’omonimo film del regista coreano Kim Ki-duk.
E’ un film che invita, proponendo come fonte d’ispirazione il susseguirsi delle stagioni, la crescita spirituale e fisica di un monaco bambino.
Appropriandomi dei messaggi e dell’eterna ricerca di stessi, ho scritto, sentendomi a mio agio e sinceramente coinvolto dall’avvicendarsi della storia, cinque haiku, che spero siano l’effettiva risposta e conferma di quello che è la vita, vista dall’interno.


In fiore vive
nella luce che sale
il bimbo savio

Il caldo fuoco
tempera nella carne
la nuova vita

La boria svela
senza sicure colpe
la brama folle

Torna la luce
seminando il freddo
dentro se stessi


La pace di se
germina nello sguardo
di chi ascolta

23/09/06 6 commenti

L’età dell’amore non ha età



Roma, 23 maggio 1973



Quando si diventa vecchi, come lo sono io ora, si passa il tempo a sfogliare a ritroso le pagine della propria vita e talvolta della vita altrui.
Tanti volti hanno incrociato il mio sguardo, tante vite sono diventate la mia vita, tante storie si sono intrecciate alla mia.
Ed ora che di tutti quei volti e di tutte quelle vite più nulla è rimasto, ora che passo il tempo a fare da compagnia alla mia solitudine, oserò raccontarvi una storia d’amore.Un amore forte, disarmante, dirompente nato prima della guerra e alla guerra sopravvissuto.
Un sentimento che neppure la morte ha potuto fermare.
Ormai sono troppo vecchio per chiedere all’amore le sue ali e volare con esso.
Ma voglio tornare ad accarezzare brividi di emozioni leggendovi questa lettera........


Roma, 11 gennaio 1916

Mio adorato Antonio,
da mesi ormai volgo lo sguardo al passato, mi nutro di esso, mi disseto con il tuo ricordo.
Non mi serve altro per sopravvivere e non credo di poter più coltivare alcuna ambizione a vivere.
Ogni giorno scorrono davanti ai miei occhi senza più lacrime, le immagini nitide del nostro amore, di quella felicità che sembrava non potesse svanire.
Ogni notte ruotano le scene della nostra vita, nel mio buio esplode la luce dei tuoi occhi, quelle carezze che sento ancora sulle mie gote, quegli abbracci che mi facevano sentire protetta.
Ogni notte....
Pensavo che niente e nessuno potesse separarci, ancora ignoravo che l’eternità può durare pochi giorni.
E’ stata questa maledetta guerra a portarti via da me e da allora ti ho aspettato ogni giorno, ti ho pensato ogni istante.
Ero con te nelle trincee, sento ancora le esplosioni, gli spari, l’odore della morte.
La tua paura, la mia paura, la nostra speranza.
Si può assistere a scene mai vissute? Adesso so che si può.
Sono passati cinque mesi da quando Don Nino è venuto nella nostra casa per comunicarmi che il tuo nome figurava nella lista dei soldati caduti in guerra. Sono morta anch’io in quel preciso istante, ho smesso di vivere sull’eco di quelle parole che pulsavano rabbiose nella mia mente.
Dio!! Vorrei solo raggiungerti ovunque tu sia!
Perchè questa sofferenza mi sta logorando e non trovo pace nelle mie notti insonni.
Questa casa parla di te ed io parlo con te, sento il tuo odore e la tua presenza ovunque, mi siedo sulla tua poltrona ed ogni volta il cuore si ferma.
Adesso vorrei solo che tu entrassi da quella porta e che abbracciandomi mi riportassi alla vita.
Vorrei solo stringerti a me pensando che sei ancora vivo, che si è trattato di un errore o di un brutto sogno.
Svegliami da quest’incubo e abbracciami.
Ora, in questo preciso istante ti sto baciando.
Dimmi che riesci a sentire il sapore del mio bacio!
Dimmelo e in questo preciso istante rinascerò........


....... vi ho mentito, e per di più, ho l’abitudine di mentire a me stesso. So con certezza, che quando piove, sono le lacrime degli angeli che bussano alla mia finestra; ma io non so leggere, non più: sono cieco!
Vi ho letto questa lettera con gli occhi della memoria e con il ricordo della voce di Don Nino, che ogni volta, quando gli racconto della mia mancanza d’amore, mi legge le lettere di Marta e Antonio.
Io sono un ciarlatano, e nelle mie menzogne, nascondo tante verità; ho amato anch’io, ma alla mia età i ricordi hanno più rughe del mio volto...
Antonio, per Marta, era ormai disteso nelle tombe della guerra, ma la vera vittima è stata proprio lei; morta giorno dopo giorno, preghiera dopo preghiera lasciando sulla poltrona che lui più amava, una lettera, con piccoli frammenti del suo cuore...
Antonio continuò quella lettera ed io posso solo chiedere alla mia memoria le giuste parole e raccontarvela.......


Roma, 7 agosto 1918


.........Marta, mio delizioso cuore,
si, ho sentito il sapore dei tuoi baci, il calore delle tue labbra, il boato delle tue lacrime lasciate cadere sulle mie mani.... ma sono tornato troppo tardi.
Ero prigioniero di guerra, della stessa che la patria mi ha chiesto di combattere con il cuore; della stessa che mi ha fatto credere disperso.
Non ho mai potuto scriverti!
Ero rinchiuso in una prigione fatta di ghiaccio, avvolto da urla, tormento, fame, morte; ma il mio cuore era sempre caldo per te.
I tuoi occhi mi hanno mantenuto in vita, proprio quelli che bramavo di rivedere al mio ritorno: ma non ci sono più! Sono morti come il tuo corpo, come la mia anima, come quel gran respiro che chiamavamo vita!
Sono tornato oggi ed oggi ho voglia di morire anch’io!
La nostra casa mi parla di te: della mia assenza, della mancanza di un figlio...ma c’è solo odore di tristezza. Al mio ritorno, volevo coccolarti con quella sicurezza che deve un marito, con tante bugie sulla guerra: non volevo farti soffrire!
Di te mi restano solo immagini e il mio desiderio di averti con me; ora solo so che non amerò mai nessun’altra donna.
Mi chiedo: “ Perchè proprio io? “
Io in guerra ho peccato, ho ucciso delle persone; le ho viste morire, chiedere aiuto...piangere...
Sono un assassino!
“E’ la guerra!” Così mi rispondeva sempre il cappellano.
Ti ho perso perchè ho voluto salvare la mia vita; dovevo morire!
Ho chiesto a Don Nino quando eri morta!
Lui mi ha risposto: “In questo momento!”
E’ stata una risposta secca la sua; non l’ho compresa e so che la porterò sempre con me.
In questa stanza, avverto la tua presenza e so che un giorno risentirò il calore delle tue labbra sulle mie...ora sto piangendo con le tue lacrime!
Presto sarò da te.


...... Adesso che vi ho raccontato questa storia, immergendomi totalmente in essa e vivendola con tutta l'intensità che un uomo può chiedere alla propria donna, vi chiederete: "Perchè raccontarla proprio a noi?"Giusto! Forse non dovevo farlo?Oggi è il 23 maggio del 1973, sono seduto sulla mia vecchia poltrona e l’unica donna, dopo la morte della mia seconda moglie, che mi è restata vicina è Marta: lei è mia figlia!
Ebbene si, mi sono risposato, ho ricercato i suoi occhi negli occhi di un’altra donna ed ho dato il suo nome alla mia unica figlia.
Sono troppo vecchio perché menta e alla mia età non si ha neanche il coraggio di farlo.
Avevo promesso nella mia lettera, che avrei fatto il salto, che avrei raggiunto le sue labbra... ho scelto di vivere; sono un uomo con tutta la sua codardia!
Ho pianto con i miei occhi le sue lacrime, ma non sono riuscito a raggiungere le sue labbra...
Non so perchè, ma avrei dovuto farlo! Sono un vigliacco e per questo – credo fermamente nella giustizia divina – dopo qualche mese ho perso l’uso della vista.
Forse la vera morale di queste lettere sta nelle promesse fatte e in tutto quello che ci si aspetta dall’amore! Talvolta io credo nella casualità e nella vita: forse io dovevo continuare a vivere!
Posso solo chiudere dicendovi che l’età dell’amore non ha età!

******

Testo scritto da " Stefy71 " & " Raffaele Innamorato "


12/09/06 5 commenti

9/12...

Speranze mute
odono in silenzio
il nume morto

*****

La pietà scotta
in macerie svenute
d’odio velato


04/09/06 6 commenti

La fatafarfalla


C’era una volta una fatafarfalla che amava giocare con le nuvole...

Era ancora una piccola fata, ma viveva come se fosse già una regina.
Suo padre, il re Zujothò della città di Jaszelo prevedeva per lei un gran futuro; e per questo motivo l’affidò alle cure del maestro mago Sambishà.
Sambishà, nonostante la vecchiaia, era ancora in gran forma: “E’ merito della sua magia.” si mormorava in città. Lui amava la vita, la buona cucina e adorava aiutare tutti gli jaszeliti con le sue pozioni; talvolta nutriva una profonda passione per l’asselesiana viola: un fiore che fiorisce ogni primavera sotto gli alberi manschù.
L’asselesiana viola, a detta degli jaszeliti, se raccolta ai primi bagliori della primavera, e se fatta seccare all’ombra dell’albero manschù, donava alla pelle la tonicità della fanciullezza: così spiegavano la beltà del vecchio mago.
Un giorno, proprio all’esordio della primavera, il mago mostrò alla fatafarfalla come raccogliere e seccare il fiore.
La fata, stanca per il duro lavoro, si allontanò nel bosco, mostrando, in tutta la sua bellezza, le giovani ali. Volò per svariate coltivazioni di fulguree roshaske – in jaszelito: fiore dell’amore -, assaporò tutto il profumo, finquando non fu colpita dalla vista di un Mangku, maligno roditore delle piantagioni roshaske. La guardò con tale gentilezza, che la fata, sentendosi osservata, scese giù nel campo.

Tu sei la fatafarfalla!” gli disse.
“Si, sono proprio io! Tu come ti chiami?” rispose la fatafarfalla.
“Mi chiamo Hazaleth. Sono il custode delle fulguree roshaske.”
“Ah si! Che lavoro faticoso è il tuo…!”
“Vero!” disse il roditore con voce ingannevole.
“Sono sempre qui. Sto attento agli innamorati che rubano questi fiori!” continuò.
“Tu hai una famiglia?” disse la fatafarfalla.
“No! Odio l’amore...odio tutti quegli stupidi che credono che un fiore possa accrescere il loro amore! Che grande stupidatà è l’amore!” disse il roditore.
“Così non ami l’amore! Io penso che senza amore non può vivere. Sai, io sono innamorata di un piccolo principe.”
“Alla tua età?”
“Io sono grande sai! Io compio dieci inverni e un mese primaverile. Sono abbastanza grande da essere innamorata!”
“Innamorata...! Quali sciocchezze odono le mie orecchie! L’amore non esiste!!!” gridò il roditore, quasi mostrando pena per la fatafarfalla.
“ Non m’interessa, guardiano dei fiori dell’amore. Io...io sono innamorata del mio principe!” continuò la fata.

Il tempo proseguiva accumulando ricordi; la fatafarfalla, sembrò non accorgersene. Non capiva se il roditore la prendesse in giro, o realmente, non aveva mai provato amore per qualcuno. Continuarono a parlare per lungo tempo, finquando, una voce la chiamò.
- “ Fatafarfalla...! Fatafarfalla!” sentì.
Era il mago Sambishà che la cercava.
Il roditore, colto da un senso di paura, cercò di scappare.
Colto da una maligna idea, disse alla fatafarfalla:

E’ vero che tu giochi con le nuvole?”
“Si, mi piace tanto!” rispose la fata.
“Non ci credo! Tu sei capace di far apparire le nuvole? Sei bugiarda!”
“E’ vero, verissimo!”

La fata chiuse per un istante gli occhi; e come per incanto, nel ben mezzo del sereno, creò dei nuvoloni.

Sai far piovere?” disse il roditore.
“Certo!”
“Tu non sai far piovere!”
“Ora ti mostro.”

La fatafarfalla creò in un baleno la pioggia. Sembrò felice, quando dimostrò al roditore quello che sapeva fare.

Sai creare i fulmini?”
“Certo!” rispose la fata.

La voce di Sambishà era ancora lontana; e per questo, Hazaleth continuò a beffarsi della fata. Iniziò a ridere e a prendersi gioco di lei.
La fata era imbarazzata, aveva promesso qualcosa che non aveva mai imparato: ma non demorse. Mormorò varie formule lette giorni prima dal libro delle fate.
All’improvviso, un tuono. Un altro. Infine, dalle nuvole scaturì una luce fortissima.
Fece scoppiare un fulmine, mostrandosi soddisfatta dell’imbarazzo del roditore.
Il vento si mostrò irrequieto, e spostò le nuvole, proprio all’impazzare di un nuovo fulmine; alla vista del vecchio mago.
Il fulmine colpì un’ala della fatafarfalla; lasciando Sambishà impietrito.
Il roditore scappò, lasciando la fata recisa del suo futuro – non poteva più diventare la regina di Jaszelo -.
Sambishà la curò; ma, neanche le sue formule magiche poterono contro la sventura della fatafarfalla.
Il mago pensò di nasconderla.
Passarono mesi; giunse l’età autunnale delle stagioni, e il re Zujothò prese, a battito d’ali, il viaggio per rivedere la figlia.
Il mago cercò di nascondere la verità; ma la menzogna ha sempre vita breve.
Il re, stanco del perseverare del mago, non vide altra scelta, che dimostrare il suo potere di re.
La fatafarfalla uscì da una porta, dietro la casa del mago. Era ancora priva di un’ala; e nessuna magia, sarebbe riuscita a ridargli.
Il re la guardò e disse: “ Lei non è mia figlia! Non è la futura regina di Jaszelo!”
A niente servirono le lacrime della fatafarfalla, e le parole del vecchio mago.
Il re volò via, coperto da quelle nuvole che gli avevano fatto perdere l’amore di sua figlia.
La fatafarfalla, nonostante il grande affetto che aveva per il padre, smise di piangere; si mostrò estranea a tutto ciò che era accaduto. “Infondo è solo un’ala!” pensò.
Scappò dalla casa del mago.
Camminò come non aveva mai fatto, incontrando elfi, orchi e tutte le creature dei boschi, finora mai incontrate.
Visse per vari inverni in piena solitudine; finquando non si ritrovò davanti alla sua vecchia casa: il castello del re Zujothò.
Vide il padre, oramai vecchio, appoggiato vicino ad un albero che osservava il cielo.
Il re la vide e disse: “ Tu sei la nostra regina!”
Lei cominciò a piangere, assaporando il sapore delle sue stesse lacrime.
Abbracciò il vecchio padre...
Ancora oggi, dopo tanti anni di regno, la fatafarfalla, ricorda le lacrime del re e l’infuso d’asselesiana viola che bevvero quel giorno.
Il re morì un anno dopo, e la fatafarfalla, regnò a Jaszelo con il piccolo principe che aveva abbandonato, fin dal tempo dello sfortunato incontro di Hazaleth.
La fatafarfalla, fu la prima regina di Jaszelo, ad aver avuto l’affetto del suo popolo, anche se possedendo una sola ala.



27/08/06 14 commenti

L'uomo albero

- sanguigna su carta crema -
disegno di Mariposas: “L’uomo albero”


Dalle mie ferie trascorse in montagna conservo solamente nostalgie, paure e tutte le mie verità. Talvolta, solo chi intersecandosi con l’ironia della casualità e dalla ricerca del proprio mondo interiore, potrà rispecchiarsi in questo racconto; a mio parere leale come la fantasia, falso quanto la nostra coscienza...
E’ noto, per quanto instabile sia la mia ragione, che il 2 novembre è il dì dei defunti. Ogni spirito sorseggia, evadendo dalle proprie residenze, un nuovo giorno di vita sulla terra: questa è l’ultima verità che mi concedo.

Quel giorno uscii di casa all’alba, lasciando mia moglie e mio figlio fra le braccia delle lenzuola. Quella notte, come accadeva da svariati giorni, avevo dormito poco e male. Ogni volta ero il protagonista dello stesso incubo: una voce fatta di luce che mi rimproverava; di questo avevo realmente timore.
Io ho sempre incoraggiato la gente a credere nelle proprie capacità; e per questo sono sempre stato amato. So leggere nei loro occhi, intuendone bellezza e terrore. Talvolta, quando rivedo la mia immagine allo specchio, ho l’ambizione di voler baciare la mia fronte, ma invano; bacio sempre le mie labbra: è il desiderio dell’improponibile che mi rende inumano...
Camminavo per il bosco cercando una spiegazione razionale per i miei incubi, solo, con il sole che man mano arroventava la mia pelle e il vento che folleggiava le sue liriche tra le foglie degli alberi...di colpo mi sentii parte della montagna. Respirai avidamente tutta l’aria che potei respirare: ero rinato.
Non conservai più nessun’asprezza per il mio incubo; avevo la sensazione d’essere un uomo albero che viveva nella propria beltà. Gioivo nel mostrare i miei rami, robusti, fieri, gentili. Giocavo con la fantasia, lasciavo dondolarmi dal vento e sorridendo alla vista di due scoiattoli che si rincorrevano: “Che bella coppia!” pensai. Diedi ospitalità a degli uccelli di passaggio, quasi in mio onore, sembrarono comporre una lirica; ero a digiuno da quella sensazione che rendeva un uomo vivo: “La vita è sempre con noi. Vive, respira, gioisce solamente se noi ne sentiamo il possesso!”questi pensieri continuavano a rinsavirmi; ero ancora una volta padrone di me e dei miei sogni.
Io sono un commerciante, ma ho sempre sognato altro. E’ un lavoro comodo che mi ha ricompensato con una casa, con una famiglia felice, con una vita agiata: ma io ho sempre desiderato altro per me; è il prezzo delle scelte...
Proseguii per ancora qualche metro; quando, alle mie spalle una voce mi cinse di blocco.
- “Tu sei felice?” mi disse.
Tremai; non avevo il coraggio di voltarmi, quando mi ripeté:
- “Tu sei felice?”
- “Si.” gli risposi.
- “Sei falso anche con te stesso. Sai cos’è la felicità?”
- “Certo; io sono felice!”
Mi voltai. Di colpo fui abbagliato dalla luce accecante del mio incubo. Fui colto da un inspiegabile senso di paura e dalla mia incapacità dinnanzi alla situazione presentatami. La luce svanì, come il cinguettio degli uccelli attorno a me.
- “Chi è lei? Perchè si nasconde dietro quell’albero?” gridai, mettendo in risalto la mia fobia.
- “Ah, ah...” sorrise. “Io sono l’albero!” esclamò.
- “Un albero che parla! Sciocchezze!”
- “Tu non sei felice...”
- “L’ho sono!”
- “sai chi sei realmente?”
- “Io mi chiamo Paolo Aiello...!”
- “Ah, ah... tutti ricordiamo il nostro nome, ma sappiamo chi siamo realmente? Io mi chiamo Albero.”
Mi sentivo sempre più stupido. Avevo cercato per vari giorni una spiegazione plausibile per il mio incubo, ed ora che si presentavano delle risposte, avevo paura: chi non l’avrebbe avuta al mio posto!
Cominciai a girargli intorno con piccoli passi: non c’era nessun uomo.
- “Soddisfatto.” esclamò l’albero.
- “Di cosa?” risposi.
- “Non c’è nessun uomo dietro di me! Guarda in alto!”
Guardai, e proprio alla fine del tronco, vidi qualcosa che assomigliava ad un volto: sì, era proprio un volto! Aveva un grosso naso, una bocca e due grossi occhi di legno: mi venne in mente la favola di Pinocchio; il solo pensiero mi fece sentire meglio.
- “Cosa sai della felicità?” chiesi all’albero.
- “Amico mio, un tempo anch’io ero un uomo! Ho vissuto lavorando, e lavorando sono morto. Ho cresciuto i miei figli, ho costruito case, ma non ho mai sentito i miei figli chiamarmi papà. Ero sempre fuori; non voglio che tu faccia il mio stesso errore. La famiglia è la cosa più importante della vita, e tu la stai trascurando!” rispose l’albero.
Ebbi la sensazione che parlava di mio padre. Io non l’ho mai conosciuto realmente, era sempre fuori per lavoro, e per esso è morto. Avevo sette anni quando morì, e di lui conservo ricordi sparsi, quelli che mi raccontava mia madre.
- “E’ vero...io non sono felice!” dissi
- “ Vedi!” mi rispose l’albero.
- “Io sono un commerciante e passo parte della mia vita fuori. Non ricordo neanche quale sia stata la prima parola pronunciata da mia figlia. Sto facendo il tuo stesso errore albero; come anche mio padre...
- “Tuo padre è stato un grande uomo; tu sei come lui!”
Iniziai a piangere. Quell’albero riuscì a leggermi dentro, a consigliarmi: sapeva chi ero dentro.
- “Devi imparare ad essere felice.” mormorò l’albero.
- “Come? Io amo il mio lavoro; amo la mia famiglia!” gli dissi.
- “Solo in punto di morte potrai comprendere...! Io l’ho so!”
Restavo sempre più sbalordito. Parlammo per diverse ore. Gli raccontai anche una delle mie fiabe scritte per mia figlia. L’uomo albero sorrise al solo gesto.
- “Per un attimo ho avuto la sensazione di ritornare bambino.” mi disse l’albero.
- “Questa favola l’ho scritta per Barbara...”risposi
Al solo pronunciare di quel nome, l’albero cominciò a piangere.
- “Barbara...Barbara...Barbara...!” ripeté più volte
- “Tu come ti chiami?” dissi.
- “Albero, Paolì! Ora sai cosa fare nella tua vita! Ah...Ah...!” sorrise.
Di colpo l’albero s’ammutolì e tutto mi sembrò un sogno. Quell’albero aveva smesso d’essere un uomo: ritornò freddo, senza vita.
- “Sì, io sono Paolì...papà!”
Dissi mentre una lacrima cercava di cascare sul terreno, impedita dalla mia folta barba...

Ritornai dalla mia famiglia, felice come non mai. Barbara mi guardò con occhi differenti, felici. La presi in braccio improvvisando una danza; le mie gambe si piegarono per la stanchezza dei chilometri fatti, e cademmo per terra. Ero felice.
Il giorno successivo, risvegliandomi, raccontai a mia moglie che avevo sognato di pubblicare il mio libro di fiabe: lei mi sorrise con lo sguardo. L’incubo che mi aveva tormentato per giorni era svanito, e io mi sentivo un uomo nuovo.
Ritornai nel bosco per ringraziare l’uomo albero, ma lui non c’era più.

Ancora oggi, trascorsi svariati anni da quell’esperienza, non ho sagge risposte. Ho cambiato lavoro, e il mio libro di fiabe e tra i più apprezzati dai critici letterari.
Dimenticavo; il mio libro di fiabe è intitolato: “ L’uomo albero!”
22/07/06 6 commenti

Passion



- acrilico su cartoncino -
Disegno di Mariposas: “ Passion “



Gli avvenimenti descritti in questo racconto sono espedienti della mia fantasia. Ringrazio Mariposas per avermi prestato uno dei suoi lavori, e spero d’aver espresso, con le mie parole, la sua idea della passionalità.



“Lambendo con le mani la propria pelle,
i riverberi cocenti della passione si mostrano senza peccato...”

Questo pensai, quando nutrito dalla mia curiosità, mi presentai, anonimo, alla presentazione di questo disegno.
Ricordo che quella notte, la luna mi recava rimproveri, e la mia voglia di avventurarmi in ambienti insoliti era più veritiera del languore del mio stomaco. Non avevo ancora cenato, e nonostante fosse già notte, il mio vuoto dissentiva solo con la mia ricerca di novità.
Ero a Roma da qualche giorno, mi sentivo solo e privo di quello spirito che contraddistingue i veri avventurieri.
Passeggiavo; accolto sempre più dai colori della capitale, quando, da lontano, accolto dal mormorio delle chiacchiere, vidi così tanta gente, che, avvicinarmi fu inevitabile.
Forse ero vittima della mia curiosità, ma c’era anche un buon odore di cibo.
Essere ospite in una città che non si conosce, e per di più, essere complice di un mordace vuoto allo stomaco, mi rese vittima di uno dei peccati a me meno congeniali: avevo fame.
Entrai alla mostra con passi da profeta, con quel fare da artista stravagante; ma il mio interesse era un altro: era vorace!
Vidi finalmente il tavolo del buffet; mi avvicinai, quando, nel momento più meridionale dell’atto – il viaggio era frutto di una mia follia, vissuta, quando ero più squattrinato; e meridionale è un termine per me consono, quando si cerca di vivere in modo aggressivo ed approfittando di ogni piccola situazione -, una vocina, di proposito, pretese la mia attenzione.
M’indicò, e tutti cominciarono a guardarmi.
Diventai piccolissimo. Mi sentii come un bambino che rovistava nella cucina di un parente, in cerca di cioccolato.
Quella donna – che conobbi in seguito come autrice del disegno – accompagnò tutti i suoi ospiti verso di me; ma esattamente alle mie spalle.
C’era un gran cavalletto coperto da un velo bianco.
Mi rincuorai, sentendomi partecipe dell’IO narrante, di uno dei romanzi di Carofiglio: ironico, sempre pronto in nuove iniziative ed a volte aggressivo.

Il telo galleggiò nell’aria come un aquilone; ma questo era solo l’inizio!
La punta del velo, sfiorò leggermente il pavimento e di colpo, come se fossi alla presentazione di un quadro di Van Gogh, partì un sottofondo musicale.
Tutto era perfetto, e l’autrice mantenne asciutti i suoi occhi vispi fintando gli applausi degli ospiti non ebbero rivelato la sua ansia.
I suoi occhi consentirono anche i miei nell’emozionarsi.
Un’artista, per quanto si mostri aggressivo dinnanzi al proprio lavoro, resta sempre la prima vittima della criticità della gente. Fu una dolce rivelazione, e quel disegno, tutt’oggi è vivo nel mio cuore, nonostante sia stata, la mia, una sola presenza gastronomica...

Questo ho scritto sul mio diario:




In carne,
il suo corpo galleggiava nella profondità di un ritratto,
rosso,
nella passione,
libera,
senza esitazioni.



Perchè paragonare la nudità ad un atto peccaminoso del nostro quotidiano? C’è e dobbiamo lodarla! La passione è l’indumento intimo della nostra vita; privarsene, significherebbe rendere insignificante il nostro vissuto!
Chiudo, dicendo, che ogni passione è degna d’essere vissuta, anche se non si ha le capacità d’intuirne il seguito!





17/07/06 7 commenti

L'arte del cestaio

* Dedicato a mio padre *


“Talvolta, privatosi del fascino della natura, il nostro spirito ha voce solo nell’indifferenza...”

Questo penso ogni volta che guardo un semplice tramonto, un fiore, il lavoro di mio padre.
Come per molti artisti – per artisti intendo ogni persona che ha il coraggio di mettere in discussione se stesso e il proprio operato – ogni lavoro è ispirato da una voce divina, da un lato oscuro della propria memoria, che, noncurante dei nostri punti di vista, appare sotto la semplicistica voce dell’ispirazione. Dovremmo chiederci: “Cos’è l’ispirazione?”
Io non so! Ma l’idea, quel pensiero assillante che si presenta in noi, ogni volta che siamo più spenti, ci domina. Sappiamo - indossando per un attimo i panni umili di un artista – che l’artista ha piena conoscenza delle proprie qualità, e che, per comprenderne i vuoti, percorre spesso le vie silenziose del proprio animo; cerca, si domanda, a volte si arrende, ma infine è sempre quella vocina che ha la peggio. Si presenta sotto la forma di una preghiera – se vogliamo – e ci regala libertà, tempo da dedicare a quella nuvola bianca chiamata “ ispirazione”, rendendoci umili, grati e possessori di un dono, che, presentatosi sotto la voce di un obbligo morale, non si può fare altro che abbandonarvi e concedere tutto ciò che ci viene comandato.
Può sembrare insano e maldestro tutto ciò, ma, possedere una voce interiore che ti obbliga a percorre la propria strada senza la propria volontà, sapendo che si possiede il dono di regalare un sorriso ad un bambino – ho vissuto quest’esperienza di persona - è un ineguagliabile giustizia.

Ho voluto ricreare questa presentazione, altresì stravagante, per rendere omaggio ad un lavoro, da me vissuto in prima persona: quello di mio padre.
Il lavoro del cestaio è vetusto quanto la voglia di mettersi in discussione, e per mia gioia, voglio regalarvi qualche immagine del suo operato.
12/07/06 12 commenti

Questo è solo un bacio!

Foto di Ariel Gonzalez


Consentire al cuore, i digiuni dell’intelletto è lecito.

Un bacio:
un’impronta a labbra accese;
libere, assenzienti, stravaganti,
residenti sulla pelle...

Un silenzioso sfiorarsi,
senza voce,
senza ragione,
senza rimpianto...

Abbandonati nella musica del tempo,
senza confine,
senza dimensione,
senza consapevolezza...

Stravaganti,
danzando in terre straniere,
in cuccioli ritagli della memoria...

Questo è solo un bacio!

 
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